Napoli, 17 gennaio 2022. Cartello affisso dagli studenti del liceo artistico Ss. Apostoli all'esterno dell'istituto. Foto di C. Fusco/Ansa
Napoli, 17 gennaio 2022. Cartello affisso dagli studenti del liceo artistico Ss. Apostoli all'esterno dell'istituto. Foto di C. Fusco/Ansa

Diventare insegnanti in Italia, una lunga corsa a ostacoli che cambia di continuo

In Italia, ogni legislatura che sale al potere cambia le regole per l'accesso all'insegnamento. Dalla laurea all'abilitazione, ecco come funzionano i concorsi e l'anno di prova per i docenti

Francesco Rossi

Francesco RossiGiornalista e consulente lavialibera

7 maggio 2024

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Quando entra per la prima volta nella scuola di Hogwarts, Harry Potter, protagonista dell’omonima saga, rimane sbalordito alla vista del complesso sistema di scale che attraversa il palazzo: una selva di rampe che si muovono, mutando ogni volta il percorso per salire e scendere dai diversi piani. “Alle scale piace cambiare”, si sente dire il giovane mago. 

Scuola made in Italy

Ecco, l’iter per diventare insegnanti, in Italia, funziona più o meno allo stesso modo, perché anche al ministero dell’Istruzione, evidentemente, piace cambiare. Al ritmo di una riforma in ogni legislatura, per il reclutamento dei docenti, in particolare di scuola secondaria, si è stratificato un sistema di regole e (soprattutto) eccezioni nel quale è davvero difficile districarsi e che rende quasi impossibile programmare con chiarezza il proprio futuro professionale

Per il reclutamento dei docenti si è stratificato un sistema di regole e (soprattutto) eccezioni nel quale è davvero difficile districarsi

Corsi, concorsi, scuole di specializzazione, tirocini formativi, crediti universitari: un moto perenne che si avvolge su sé stesso. Proviamo a ripercorrere questa traiettoria (almeno trentennale) a ritroso e a creare una breve guida a uso e consumo degli aspiranti docenti.

Come si diventa insegnanti oggi: titolo di studio, abilitazione, graduatoria, concorso, anno di prova

Oggi, sulla carta, per essere insegnanti nelle scuole italiane di ogni ordine e grado sono richiesti solo due requisiti:

  • titolo di studio idoneo;
  • abilitazione all’insegnamento.

Ma il diavolo, è risaputo, si nasconde nei dettagli. Ed è guardando più da vicino ciascuno di questi due requisiti che emergono i nodi. Innanzitutto, perché possederli non significa automaticamente lavorare nella scuola. Infatti, per entrare in classe, che sia per una supplenza o con un contratto a tempo indeterminato, bisogna mettersi in fila nelle graduatorie di istituto o vincere un concorso. In secondo luogo, le modalità di acquisizione di questi requisiti sono proprio l’epicentro delle continue modifiche legislative.

Lauree per insegnare, quali sono?

Partiamo dal titolo di studio, che è lo scoglio più agevole da superare. Per la scuola primaria c’è poco da dire: si diventa insegnanti con una laurea magistrale in scienze della formazione (che ha anche valore di abilitazione). Nella scuola superiore le cose di fanno leggermente più complicate, perché ogni materia di insegnamento ha la sua laurea (o le sue lauree) di riferimento. E in materia le novità sono molto recenti.

Le due “elle” di Valditara

È del dicembre 2023, infatti, l’aggiornamento delle classi di concorso, previsto già dalla riforma della scuola voluta da Patrizio Bianchi, ministro dell’Istruzione del governo presieduto da Mario Draghi. Bisogna quindi armarsi di santa pazienza, scorrere le infinite tabelle ministeriali contenute nel documento e controllare se la propria laurea consente di insegnare qualcosa o, viceversa, che laurea bisogna avere per insegnare una determinata materia. Attenzione, però, perché in alcuni casi il titolo non basta e può essere richiesto un numero minimo di Cfu (i Crediti formativi universitari) in specifici ambiti disciplinari (che possono anche essere acquisiti con corsi singoli, dopo la laurea).

Come abilitarsi all’insegnamento: i 60 Cfu

Secondo passaggio: l’abilitazione. Nel caso della scuola primaria, come già detto, è “incusa” nella laurea. Per la secondaria, invece, va presa a parte. Sul tema ha messo mano sempre il ministro Bianchi, prevedendo l’introduzione di percorsi universitari ad hoc che consentono a tutti coloro che hanno un titolo di studio idoneo di conseguire l’abilitazione all’insegnamento.

Il mercato dei crediti per insegnanti

Si tratta dei cosiddetti percorsi da 60 Cfu, che vertono sulle discipline antropo-psico-pedagogiche e sulle metodologie e tecnologie didattiche e linguistiche. La loro definitiva obbligatorietà è prevista a partire dal 1° gennaio 2025. Nella fase transitoria, sono state previste delle eccezioni, cioè dei percorsi alternativi, più brevi, per determinate categorie di aspiranti professori. In particolare, esistono percorsi da solo 30 Cfu per:

  • docenti abilitati per un’altra classe di concorso o un altro grado di istruzione;
  • docenti abilitati sul sostegno;
  • docenti non abilitati ma che hanno già lavorato come supplenti per almeno tre anni.

Ci sono poi i percorsi da 36 Cfu destinati a coloro che negli anni passati hanno seguito i corsi da 24 Cfu (previsti dalla riforma della Buona Scuola, precedente a quella del ministro Bianchi, come requisito per l’accesso ai concorsi per insegnanti). Sarebbe più corretto, però, esprimersi al condizionale quando si parla di questi percorsi, perché, in mancanza di decreti attuativi da parte del ministero, non sono ancora partiti.

“La scuola deve essere politica”

Le università sono pronte ma non possono aprire le iscrizioni. E pensare che i primi corsi avrebbero dovuto far parte dell’anno accademico 2023/2024. Ma, per comodità, facciamo finta che i 60 Cfu già esistano e passiamo oltre.

Le graduatorie provinciali di supplenza (gps) e le graduatorie d’istituto

Una volta conseguita l’abilitazione all’insegnamento si può iniziare a lavorare, magari con contratti a tempo determinato, a volte anche molto brevi. Per essere chiamati per le supplenze, però, bisogna inserirsi nelle apposite graduatorie, che sono di due tipi:

  • graduatorie provinciali di supplenza (GPS), utilizzate per l’assegnazione degli incarichi annuali, con scadenza al 30 giugno o al 31 agosto;
  • graduatorie d’istituto, da cui le singole scuole attingono per coprire le supplenze brevi. 

Oltre a coloro che hanno già l’abilitazione, però, all’interno delle graduatorie confluiscono anche tutti quelli che possiedono un titolo di studio idoneo all’insegnamento ma non si sono ancora abilitati. Ecco perché le gps sono organizzate in due fasce, la prima riservata ai docenti abilitati, la seconda al personale non abilitato. Nelle graduatorie di istituto, invece, le fasce sono tre: in prima vanno gli iscritti alle graduatorie ad esaurimento (una sorta di riserva naturale in cui sono confluiti gli insegnanti di più lungo corso, che facevano parte delle vecchie graduatorie permanenti, chiuse nel 2008), in seconda gli abilitati, in terza i non abilitati. Le graduatorie provinciali e quelle di istituto hanno durata biennale, e vengono quindi aperte ogni due anni per consentire nuove iscrizioni e aggiornamenti del punteggio (determinato sulla base di titoli e anni di insegnamento già maturati).

I concorsi a cattedra

L’orizzonte agognato da un aspirante docente, però, non è certo il precariato a vita, ma il cosiddetto ruolo, la cattedra inamovibile, la stabilizzazione. Attualmente, l’assunzione degli insegnanti a tempo indeterminato avviene secondo il sistema del doppio canale, introdotto alla fine degli anni ’80: metà dei posti disponibili vengono assegnati a coloro che si trovano nelle graduatorie a esaurimento e l’altra metà a quelli che si trovano nelle graduatorie di merito (quindi vincitori di concorso pubblico).

L’assunzione degli insegnanti a tempo indeterminato avviene secondo il sistema del doppio canale: metà dei posti vengono assegnati a chi si trova nelle graduatorie a esaurimento e l’altra metà a chi è nelle graduatorie di merito

La doppia via, però, è solo fittizia, perché, come già detto, le graduatorie ad esaurimento sono chiuse a nuovi ingressi dal 2008, quindi servono solamente a smaltire i cosiddetti “precari storici”. Chi inizia oggi la propria strada verso il ruolo da professore ha davanti a sé solo un’opzione: vincere un concorso. La via maestra è rappresentata dal concorso ordinario, che dovrebbe essere indetto ogni due anni ed essere aperto ai soli abilitati. In realtà, invece, la cronaca degli ultimi dieci anni parla di numerosi concorsi per la scuola straordinari o costellati di eccezioni.

Le ragioni sono legate soprattutto alla necessità di dare risposta a quella malattia endemica della scuola italiana che è il precariato, un limbo in cui vivono migliaia di docenti o aspiranti tali, che magari entrano in classe per anni pur senza essersi mai abilitati, solo perché finiti risucchiati in un pulviscolo di regole mai sedimentatesi. Molto variabili anche le modalità di svolgimento dei concorsi.

Migliaia di docenti o aspiranti tali vivono in un limbo: magari entrano in classe per anni pur senza essersi mai abilitati

Di norma, gli step dovrebbero essere tre: prova preselettiva computer based (soprattutto con quesiti di logica, cultura generale e normative di settore), prova scritta (incentrata sulla materia di indirizzo) e colloquio orale (focalizzato sulla didattica). In diversi casi, però, la preselettiva o la prima prova scritta sono saltate, oppure sono stati cambiati i loro contenuti.

L’anno di prova

Il concorso, però, non è l’ultimo step prima della definitiva stabilizzazione. I vincitori, infatti, vengono immessi in ruolo ma devono affrontare il cosiddetto anno di prova, durante il quale vengono monitorati e che si conclude con la presentazione di un progetto di lavoro didattico e con un esame. L’eventualità di mancato superamento dell’anno di prova è molto remota, tanto da trasformare questo passaggio finale in una formalità. A rigor di legge, però, può accadere che il docente neo immesso in ruolo non superi l’anni di prova. In questo caso, avrà una seconda possibilità, cioè un secondo anno di prova. Un eventuale seconda bocciatura comporterà la revoca del ruolo.

25 anni di riforme del reclutamento docenti: una generazione di aspiranti insegnanti nel caos

Ricapitolando: laurea, abilitazione e superamento di un concorso pubblico. Sono queste le tre pietre miliari che segnano la strada verso una vita da professore. Ad un primo sguardo, nulla di diverso da ciò che avviene per molte altre professioni. La semplicità di questa foto, però, viene meno se si allarga l’obiettivo sul piano temporale. In quasi 80 anni di Italia repubblicana, il modello di reclutamento dei docenti di scuola superiore è cambiato infinite volte.

Questione di classe

Soprattutto, però, ciò che ha caratterizzato e reso incomprensibile il sistema è il suo essere costruito più sulle eccezioni e sulle deroghe che sulle regole. Se è vero, ad esempio, che fin dalle origini è stato il concorso pubblico il principio di riferimento per l’assunzione dei docenti, come è possibile che già alla fine degli anni ’70, il 90 per cento dei docenti risultava immesso in ruolo per altre vie?

Le sanatorie, è questa la risposta. Sanatorie che ancora oggi rappresentano l’unico modo con cui i governi riescono a rispondere a inefficienze radicate nei decenni, che hanno un epicentro chiaro: l’uso del precariato come strumento per abbassare i costi dell’istruzione, perché un insegnante di ruolo costa più di uno assunto solo per nove mesi. Una prassi inaugurata con sfacciata disinvoltura nella prima repubblica e proseguita senza battere ciglio da quelle che ne hanno preso il posto. 

Le sanatorie rappresentano l’unico modo con cui i governi riescono a rispondere a inefficienze radicate nei decenni

Anzi, se possibile, nell’ultimo trentennio la situazione è anche peggiorata e le riforme pasticciate del reclutamento dei docenti si sono moltiplicate. Dal 1999 ad oggi le regole del gioco sono cambiate più volte di quanto non sia accaduto nei 50 anni precedenti (pur caratterizzati dal disordinato sovrapporsi di concorsi, graduatorie permanenti e assunzione ope legis). Nel 1999, infatti, entra in vigore (dopo ben 10 anni dalla sua ideazione) la Ssis, cioè la Scuola di specializzazione all’insegnamento secondario.

Sembra davvero la svolta decisiva: un percorso post-laurea biennale, con esame finale, per formare e abilitare i futuri professori.  È la versione più strutturata di quelli che fino a quel momento erano stati i corsi abilitanti. Nel 2003, però, la novità viene subito messa in discussione da un progetto di riforma firmato da Letizia Moratti, ministra dell’Istruzione del II governo guidato da Silvio Berlusconi. L’idea di Moratti è quella di creare delle lauree specialistiche a numero chiuso per insegnanti, con tirocinio abilitante finale. Il cambio di maggioranza e l’avvento del centrosinistra (ministro Giuseppe Fioroni) blocca tutto sul nascere.

A dare la spallata alla Ssis, però, ci pensa nel 2009 Mariastella Gelmini, nominata al dicastero di viale Trastevere sempre da Berlusconi, al suo quarto mandato. È suo il progetto di sostituire la scuola con un sistema a due fasi per formare i nuovi docenti: corso di laurea magistrale di due anni a numero chiuso e tirocinio formativo abilitante di un anno (Tfa). Anche in questo caso, però, le tempeste politiche (il governo cade nel novembre 2011) uccidono la riforma nella culla.

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Di tirocinio formativo se ne attiva uno solo e a carattere transitorio, perché non preceduto dal biennio di laurea magistrale. Si arriva così al 2013, il governo è quello di Mario Monti e il ministro dell’Istruzione è Francesco Profumo. Altro giro di giostra altra riforma, niente Tfa ma Pas, cioè Percorsi abilitanti speciali. Una soluzione ponte, pensata esclusivamente per chi ha già prestato servizio nella scuola per almeno tre anni (nei 15 anni precedenti).

L’obiettivo finale, infatti, è ricollocare al centro della scena, anche nella scuola, i concorsi pubblici, fermi ormai da 15 anni. Per vedere bandito il primo concorso, però, bisogna aspettare il governo di Matteo Renzi e la sua riforma della Buona scuola. Archiviati definitivamente Ssis, Tfa, Pas, l’abilitazione si può prendere tramite concorso, ma solo dopo aver conseguito almeno 24 crediti universitariinmaterie psicopedagogiche e in didattica (vedi sopra). Un impianto che nelle sue linee guida ha retto fino a oggi.

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Ma chi è finito nell’occhio di questo ciclone riformatore? Sembra banale dirlo, ma sono gli aspiranti professori, soprattutto che oggi hanno tra i 30 e i 40 anni, che si sono ritrovati spaesati di fronte a regole in continuo mutamento. È una generazione che è entrata all’università convinta di dover poi accedere alla Ssis e che invece ne è uscita senza più sapere dove andare a parare per abilitarsi, priva di punti di riferimento.

Anno dopo anno, è stata costretta a tentare più strade, a ricalcolare continuamente la rotta, a collezionare Cfu. Con il timore costante di perdere, nel breve volgere di un emendamento, i requisiti per diventare insegnante, magari appena conquistati.

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