Foto di Albert Gonzalez Farran/Unamid
Foto di Albert Gonzalez Farran/Unamid

L'Africa smuove l'Onu

Dalla Corte dell'Aja al Palazzo di vetro di New York, i paesi africani sono in prima linea nel tentare di superare la paralisi delle Nazioni unite di fronte alla guerra in Medio Oriente, mentre l'Occidente sta a guardare o rema contro

Paolo Valenti

Paolo ValentiRedattore lavialibera

29 febbraio 2024

Processo contro Israele alla Corte internazionale di giustizia, convocazioni urgenti dell’Assemblea generale, proposte di risoluzione per il cessate il fuoco: mentre la guerra a Gaza infuria, c’è chi prova a rianimare il sistema delle Nazioni unite perché adempia al suo compito di difendere il diritto e la pace. E non è l’Occidente, spesso indicato come “padrone” delle istituzioni onusiane. Sono i paesi africani che, insieme a quelli arabi, si stanno sempre di più ritagliando un ruolo da protagonisti sulla scena internazionale.

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Il Sudafrica all’Aja 

L’esempio più evidente del nuovo protagonismo africano è il caso mosso dal Sudafrica contro Israele presso la Corte internazionale di giustizia per presunte violazioni della Convenzione sul genocidio durante l’offensiva su Gaza. La causa è stata aperta il 29 dicembre, quando la delegazione sudafricana ha depositato all’Aja il documento di accusa: 84 pagine, che elencano le prove di attacchi indiscriminati sulla popolazione e sulle infrastrutture civili, comprese scuole, campi profughi e ospedali, l’esodo forzato di centinaia di migliaia di persone, gli ostacoli posti al flusso di acqua, cibo e medicinali. Atti che, uniti a decine di dichiarazioni dei vertici politici e militari israeliani, dimostrerebbero un chiaro "intento genocidario", ovvero la volontà – riprendendo le parole della Convenzione – di "distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale". 

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Sentite le parti in causa, il 26 gennaio la Corte ha giudicato plausibili le accuse e indicato le misure cautelari da implementare urgentemente nell’attesa della sentenza: a larghissima maggioranza, i 17 saggi hanno intimato a Israele di "adottare tutte le misure in suo potere" per impedire qualsiasi atto genocidario, "impedire e punire l’incitamento al genocidio", "consentire i servizi essenziali e l’assistenza umanitaria" e "garantire la conservazione delle prove relative alle accuse". Curiosamente, l’unica giudice a esprimere parere negativo su ogni misura è stata l’ugandese Julia Sebutinde, prima donna africana a sedere nella Corte, secondo cui il caso non è ammissibile perché non è stato dimostrato l’intento genocidario. Il governo ugandese, presidente di turno del Movimento dei Paesi non allineati, ha immediatamente preso le distanze dalle posizioni della giudice. 

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Per la sentenza definitiva ci vorranno mesi, se non anni. Intanto, l’offensiva israeliana su Gaza continua imperterrita, lasciando inapplicate le misure indicate dalla Corte. È il paradosso della giustizia internazionale, che si pone al di sopra degli Stati ma non ha mezzi per far valere le proprie decisioni, se non la collaborazione degli Stati stessi. "Alcuni ci hanno detto di farci gli affari nostri – ha commentato Cyril Ramphosa, presidente della Repubblica del Sudafrica –. Noi però siamo convinti di essere al posto giusto. Conosciamo bene il dolore dell’espropriazione, della discriminazione, della violenza istituzionalizzata. Sappiamo cos’è l’apartheid. Per questo, non assisteremo passivamente mentre i crimini che ci sono stati inflitti in passato sono perpetrati altrove". 

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